(di Francesco De Filippo)
Col crescere della popolazione, il
fabbisogno di acqua potabile per Trieste, unico porto del grande
impero d’Austria, si era impennato. L’imperatrice Maria Teresa
d’Asburgo (1717-1780) inviò ingegneri e geologi perché
cercassero ogni sorgente d’acqua e la incanalassero verso il
centro città. Soprattutto dal Carso. Tra strani flussi di fiume,
sondaggi, trivellazioni, risorgive i tecnici costruirono
infrastrutture con ingegnosità e oculatezza, riuscendo nello
scopo. L’acquedotto teresiano, inutilizzato da anni, conosce
oggi una nuova vita: sono state riunite le gallerie tra centro e
Carso, rendendo praticabile oltre un chilometro di sotterranei.
Grazie a una squadra di volontari speleologi della Società
Adriatica di Speleologia, si può nuovamente percorrere la
galleria lunga 400 metri, la Tschebull, dal nome di uno dei
progettisti. Disostruiti i cunicoli, è stato messo in sicurezza
un tratto di galleria il cui passaggio era impedito da una
frana.
Prima, nel 2018, soltanto per caparbietà e modalità
occasionali, poi, al crescere della squadra, con maggiore
regolarità, spesso senza poter stare in posizione eretta, con
acqua fino alla cintola e più su, e con in basso depositi di
fango e argilla simili a sabbie mobili, gli speleologi hanno
scavato praticamente a mano e portato in superficie pesanti
secchi di detriti accumulatisi nei piccoli tunnel nel sottosuolo
di Trieste.
L’idea è, una volta risistemato, di rendere visitabile
l’impianto. Per il momento vi si accede da un inquietante
tombino nel quartiere San Giovanni, nella parte alta della
città, e ci si cala per nove metri attraverso una scala a pioli
e poi una originaria scala in pietra, fino a un pozzo dove
ancora oggi in una canaletta scorre acqua pulita che scende dal
Carso e, inutilizzata, si perde tra fogne e mare. Il pozzo è
solo una stazione tra due gallerie che erano divenute
inaccessibili. Gli speleologi della Sas sono riusciti a
ricollegarle; si percorrono con tuta, stivali, caschi e luci, in
parte faticosamente. Se una galleria è fatta ad arco con
mattoncini, quella all’opposto sembra sia stata scavata ieri; il
flysch, la roccia su cui posa la città, è nudo, l’acqua gronda
dall’alto e le concrezioni molli, i depositi di minerali
sembrano ignote forme di vita.
Qualcosa tra un film horror e uno di fantascienza. Una vita,
tuttavia, in quel mondo buio del sottosuolo c’è: fauna cieca e
anche minuscoli gamberetti. Lungo questo camminamento che si
arriva su, fino al Carso. Potrebbe essere soltanto una prima
tappa, non si esclude che ci siano passaggi verso grotte
inesplorate. Non a caso, Trieste e il tra Italia e Slovenia è il
paradiso degli speleologi.
Per il presidente della Società Adriatica di Speleologia,
Marco Restaino, l’acquedotto “oltre ad essere un laboratorio
sotterraneo unico sul territorio per lo studio degli aspetti
geologici ed idrologici, va sottolineato che in quell’acqua che
ancora scorre sotto i nostri piedi, è scritta la storia della
città”.
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